Oro oggi

Tirare a campare significa tirare le cuoia

Un governo tecnico è una soluzione poco lungimirante?

Di Mario Seminerio - Phastidio.net

IL PRIMO MINISTRO BRITANNICO, David Cameron, nel corso di un incontro pubblico con studenti universitari a Berlino, rispondendo ad una domanda sui governi tecnici in Grecia e Italia, ha detto: “I governi tecnici non possono essere una risposta di lungo periodo” sostenibile per i sistemi democratici. Una frase “banale” che stimola qualche riflessione domestica aggiuntiva.

Il governo italiano è da qualche tempo in evidente affanno, dopo lo slancio “emergenziale” dell’inizio, quello in cui occorreva scongiurare l’Evento (con la maiuscola), cioè l’impossibilità di pagare stipendi e pensioni, per dirla nel modo brutale con cui Mario Monti ha sinteticamente illustrato la situazione ai partiti, subito dopo aver ricevuto l’incarico di formare il governo. A quella brutale verità ha fatto seguito la riforma delle pensioni più dura d’Europa, che d’incanto ha spazzato via lustri di sterili discussioni e distinguo da parte politica e sindacale sulla sostenibilità del nostro sistema previdenziale, già in parte riformato nel 1995 dal governo Dini con un “bello” spartiacque generazionale, di quelli che tanto piacciono a noi italiani per derubare i giovani del loro futuro, ché “tanto c’è il welfare familiare e ci si sistema in quella sede”, giusto?

Dopo quell’evento epocale, abbiamo lungamente e vanamente atteso le liberalizzazioni “vere”, un ridisegno complessivo della nostra spesa pubblica, una riduzione della pressione fiscale e l’inizio di un’era in cui il termine merito (e non la sua orribile declinazione da italico regime, meritocrazia) diventassero parte della Grande Palingenesi italiana. Col passare delle settimane e dei mesi, purtroppo, ci siamo accorti che quei traguardi non sarebbero stati raggiunti. Il governo è stato progressivamente avviluppato nelle spire della nostra partitocrazia agonizzante e proprio per questo ancora più aggressiva e distruttiva del solito.

Dopo la fase iniziale, di imminente rischio di dissesto finanziario, accompagnato da manifestazioni di ipocrita unanimismo patriottico e di file rinserrate dietro l’uomo che doveva fare il “lavoro sporco” per un sistema malato e, per la seconda volta in meno di vent’anni, finito sull’orlo del baratro, e l’illusoria discesa dello spread, frutto soprattutto delle due aste straordinarie di liquidità della Bce, siamo finiti su un binario morto fatto di tentativi di riforme che si infrangono sugli scogli della nostra miseranda condizione fiscale oltre che della disomogeneità della cosiddetta coalizione che sostiene (si fa per dire) Mario Monti e del corporativismo terminale che ci ha portato fin qui.

Il resto è noto: la marea montante del populismo, le alte urla di dolore per l’Imu, spesso levate da quegli stessi personaggi che avevano sottoscritto la manovra governativa (cosa di cui si è accorto persino il presidente del Senato), il terrore di essere falciati da un paese che schiuma rabbia e paura ma non ha memoria e tende quindi (per storica debolezza culturale) a mettersi in mano al primo guru o tycoon che passa promettendo un futuro così luminoso da costringerci ad indossare gli occhiali da sole.

Oggi siamo pressoché fermi, ma dopo aver posto nuovi macigni in vetta alla montagna fiscale che sta per franarci addosso. Costretti ad agire dal versante delle entrate a causa dei tempi strettissimi imposti da un’emergenza “artificiale”, i tempi di consolidamento dei conti pubblici, dettati dall‘angst tedesca in barba ad ogni precetto economico in tempo di recessione patrimoniale, oltre che al buonsenso. Poi abbiamo avuto la brevissima stagione “meritocratica”, quella dell’illusione (molto grillesca) dei curricula che salvano il mondo.

Come è finita, lo abbiamo appena visto con le nomine nelle authority, dove sono state selezionate pregevoli foglie di fico a coprire le pudenda della spartitocrazia ed i partiti, in versione head hunter, hanno potuto studiare approfonditamente i curricula dei candidati e giungere alla conclusione che i migliori continuavano a restare in larghissima maggioranza quelli di “area” e comprovata fedeltà.

La domanda che ci poniamo, ora, è la seguente: ha ancora senso, oggi, avere un governo “tecnico”, impegnato peraltro nella massima delle prove politiche, un negoziato europeo per cambiare tempi e modi del “risanamento” fiscale ed avviare auspicabilmente la costruzione dell’edificio dell’Unione politica? Non sarebbe meglio riconsegnare ai partiti, a questi partiti, il controllo pieno del paese e la titolarità delle sue macerie fumanti, per poter attribuire responsabilità dirette e specifiche quando verrà il momento, cioè molto presto?

E cosa potrebbe fare Monti stesso per agevolare questa “transizione”, restando fedele al proprio ruolo di traghettatore che tuttavia opera in una democrazia parlamentare in cui le camere sono sovrane del destino dei governi? Azzardiamo: smettere di cercare l’infimo comune denominatore tra la sua “maggioranza” e presentare invece provvedimenti da votare o rigettare per come sono. Perché l’epoca in cui viviamo ha ormai sovvertito quello che sembrava l’eterno andreottismo: oggi, tirare a campare equivale esattamente a tirare le cuoia, e Monti non può non saperlo.

A parte ciò, la sensazione è che il paese sia irredimibile nella sua genetica incapacità di esprimere statisti ed amministratori della cosa pubblica anziché faccendieri, demagoghi e tribuni della plebe, tutti o quasi rigorosamente e felicemente analfabeti di economia e del mondo che ci circonda. A vedere questo spettacolo miserando si avrebbe quasi voglia di fare il tifo per lo spread ed il default, come forma suprema di palingenesi. Ma, essendo in Italia, sappiamo che i “soliti noti” ed i loro famigli riuscirebbero a farsi raccomandare anche dal default in persona ed uscirne indenni, ma rigorosamente sulla pelle di noi poveri imbecilli che farnetichiamo quotidianamente di liberalismo e di cambiare il verminaio in cui siamo immersi.

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