Oro oggi

Perché i debiti privati possono uccidere le nazioni

 
OGGI PARLIAMO di due situazioni, molto lontane, molto diverse eppure con un comune denominatore: il rischio che la massa di indebitamento privato provochi, direttamente o indirettamente, il collasso dell’economia di un paese. Esempi raggelanti della vulnerabilità estrema dei sistemi economici nazionali, nell’era della globalizzazione finanziaria estrema.
 
Il primo caso è quello dei paesi del Nord Europa, che stanno progressivamente imponendo alle proprie banche dei cuscinetti di capitale aggiuntivi rispetto a quanto stabilito quest’anno dall’Unione europea, e che entrerà in vigore dal prossimo primo gennaio. Svezia e Danimarca, ad esempio, si accingono a richiedere alle proprie istituzioni finanziarie too big to fail un cuscinetto di capitale aggiuntivo mentre il governo olandese è incline a richiedere un rapporto di leverage (cioè il quoziente tra capitale proprio ed attivo patrimoniale non ponderato per il rischio) del 4%, contro la soglia minima del 3% richiesta dal Comitato di Basilea per la Supervisione Bancaria. In tutti questi paesi, gli esecutivi hanno deciso di muoversi senza attendere l’esito del negoziato comunitario che deve portare al tentativo di unione bancaria mentre si cerca di implementare i precetti di Basilea III.
 
Quale è il punto? Essenzialmente uno: i paesi che abbiamo citato sopra hanno livelli di debito pubblico molto contenuti, comunque inferiori alla media comunitaria, ma elevatissimo indebitamento privato, soprattutto nella forma di mutui. Ciò fa delle banche di quei paesi dei prestatori sovradimensionati rispetto alle dimensioni dell’economia nazionale, con tutto quello che ne consegue in termini di rischi per la stabilità finanziaria nazionale. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza, in Danimarca il debito privato è pari al 310% del reddito disponibile, secondo gli ultimi dati Ocse. Si tratta di un poco invidiabile record mondiale. In Svezia, il rapporto è al 200%. In Olanda il debito delle famiglie è il 250% del Pil del paese.
 
Evidente che, in queste condizioni, avere un debito pubblico contenuto non vuol dire essere al riparo da rischi. Da qui l’enfasi sulla necessità di disporre di capitale bancario aggiuntivo: il ministro delle Finanze svedese, Anders Borg, ha proposto di alzare ulteriormente la ponderazione per il rischio degli attivi bancari derivanti da mutui ipotecari, che pure è già triplicata da inizio anno. Se qualcosa dovesse andare storto sui mercati immobiliari di questi paesi (ed in Olanda sta già accadendo, peraltro, e pure con un sistema bancario ampiamente nazionalizzato), l’esito sarebbe devastante.
 
Ed ora, cambiamo continente e trasferiamoci in India. Il paese sta venendo duramente percosso dalle fuoriuscite di capitali, dopo che la Fed ha annunciato l’inizio della fine del proprio easing quantitativo. L’India ha una elevata dipendenza dai capitali esteri: ha un deficit delle partite correnti che a fine 2012 era di circa il 7% del Pil ed un indebitamento con l’estero che, pur se non elevatissimo (il 21% del Pil) è sfortunatamente soprattutto di breve termine, cioè prossimo al rinnovo. Gli analisti finanziari, per valutare il rischio finanziario sull’estero, calcolano il totale del fabbisogno, definito come somma del deficit annuo delle partite correnti e della parte di debito estero in scadenza entro i dodici mesi successivi, e lo rapportano allo stock di riserve valutarie del paese. Nel caso dell’India, il fabbisogno valutario a 12 mesi è di circa 250 miliardi di dollari, mentre le riserve sono pari a 279 miliardi di dollari. Come si nota, più che un campanello d’allarme questa è una sirena che avvisa dell’arrivo di un uragano, se i deflussi di capitale non si arresteranno. E soprattutto, conta il trend: il fabbisogno oggi è di circa 1,1 volte le riserve, ma nel 2007-2008 era pari ad oltre tre volte.
 
Come avrete intuito, se le riserve valutarie indiane continueranno a defluire a questo passo, il paese rischia una crisi di bilancia dei pagamenti. Soprattutto considerando che, in aggiunta al deficit delle partite correnti ed al debito finanziario netto a 12 mesi, nella borsa indiana si stima vi siano 200 miliardi di dollari di fondi esteri, che potrebbero dirigersi improvvisamente verso l’uscita. In occasione dell’ultima crisi di bilancia dei pagamenti indiana, nel 1991, la rupia era in regime di cambio fisso, per difendere il quale il paese perse praticamente tutte le proprie riserve valutarie e fu costretto a chiedere un prestito al Fondo Monetario Internazionale di 2,2 miliardi di dollari, garantito da pegno di 67 tonnellate di oro, che fu aerotrasportato a Londra, per finire nei forzieri della Bank of England, che ne fu designata custode.
 
Oggi la rupia è più o meno libera di fluttuare, ma i rischi di crisi di bilancia dei pagamenti sussistono, perché questa è la natura del sistema finanziario globale. Il problema, per l’economia indiana, è l’indebitamento privato. Sia in caso di debiti in valuta, per evidenti motivi, sia in quello di debiti in rupie, visto che i tassi domestici stanno salendo vertiginosamente. Molte aziende salteranno; le banche indiane, perlopiù statali, subiranno pressione dalle sofferenze (già oggi intorno al 12% degli impieghi), l’inflazione salirà ed i conti pubblici saranno sottoposti a crescente tensione perché il governo dovrà sborsare importi crescenti per sussidiare carburanti ed alimentari importati, divenuti nel frattempo molto più costosi. Un esempio eclatante lo stiamo avendo proprio oggi: la rupia ha perso contro dollaro ben il 4% del proprio valore, in una sola giornata, dopo che il governo di Mumbai ha approvato il Food Security Bill, che sussidierà l’acquisto di alimentari da destinare agli strati sociali più poveri della popolazione. In un paese che ha inflazione ufficiale al 10%, o si indicizza tutto, ed allora lo stato salta, o non si indicizza ed allora povera diventa ampia parte della popolazione.
 
Piccola morale dai due esempi, così lontani ma così vicini? Che il rischio di crisi finanziarie sovrane indotte da debito privato è altissimo, in questa congiuntura storica. Che l’espansione del debito privato è alimentata dalla globalizzazione dei flussi finanziari, intermediati da sistemi bancari locali che finiscono col soffrire di gigantismo rispetto al proprio stato sovrano, e che la presenza di regimi di cambio flessibile non garantisce minore dolore nel processo di aggiustamento.

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