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Oro, capitali e repressione finanziaria

Mercoledì, 4/11/2012 15:01

Viviamo davvero in un regime di repressione finanziaria?

Di Adrian Ash e Alessandra Pilloni - BullionVault

DA QUALCHE MESE a questa parte molti mezzi di informazione parlano di repressione finanziaria, ovvero la costrizione dei risparmi dei privati in investimenti con tassi di interessi al di sotto dell’inflazione reale, in modo che i debiti dei governi e delle banche si riducano in termini reali.

“Tali politiche” spiega Carmen Reinhart, economista di Bloomberg, “di solito prevedono una forte connessione tra governi, banche centrali e settore finanziario.”

Data la misura dei debiti nazionali dopo la seconda guerra, prosegue Reinhart, “la repressione finanziaria [...] con il suo scopo duplice di manteresse bassi i tassi di interesse e tenere in ostaggio il pubblico nazionale [...] è probabile durerà ancora a lungo.”

“Equivale ad una tassa su chi ha investito in bond e più in generale, su chi risparmia.”

Chi trova ingiusto pagare delle “tasse nascoste” dopo aver già pagato quelle esplicite sarà interessato a trovare una via d’uscita. Fortunatamente la ricerca non è difficile. Nonostante lo scenario descritto sembri disperato è vero invece che oggi sperimentiamo la massima libertà di circolazione di capitali degli ultimi 100 anni.

Sopratutto, gli investimenti in oro (il rifugio classico in circostanze simili, che fu infatti reso illegale in tutto il mondo quando i governi avevano la necessità di erodere i propri debiti di guerra) vengono raramente menzionati quando si parla di repressione finanziaria.

Prendiamo ad esempio il Financial Times: il mese scorso ha pubblicato 15 articoli sulla repressione finanziaria, citando l’oro soltanto due volte. Google News rimanda 103 articoli in inglese nelle ultime due settimane, ma soltanto uno su quattro nomina l’oro, e per lo più per citare la fine dello standard aureo del 1914. Ricordiamo che durante lo standard aureo chi investiva in bond aveva tassi di interesse reali molto bassi, ma non negativi. Inoltre, la conservazione del valore nominale alla maturazione era sempre garantito.

“Nell’epoca attuale di libero movimento di capitali, la repressione finanziaria è comunque possibile” scrive sul FT Edward Chancellor, economista e membro dell’allocation team di GMO, “perché viene portata avanti simultaneamente dai principali centri finanziari del mondo. I tassi di interesse reali negativi non sono soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Cina, Europa, Canada e UK.”

E quindi? Nessuno costringe i cittadini americani a tenere i propri soldi negli USA, e nessuno li costringe a scegliere un conto in euro, o in dollari canadesi o sterline, se preferiscono fare altrimenti. E per fortuna, visto che i tassi di interesse sono rispettivamente dell’1%, 2% e 3% al di sotto dell’inflazione. È vero che la finanza sta pagando il prezzo del bail out, costretta a tenere nei fondi pensione un valore di $300 miliardi in debito, i cui rendimenti al netto dell’inflazione saranno negativi.

Però, fatta eccezione per l’Oriente, i risparmiatori privati oggi godono di una libertà di investimento mai vista prima. E pure in Oriente, sopratutto in India e in Cina, l’acquisto di oro (il rifugio finanziario universale) non è stato così libero da più di 100 anni.

Vediamo cosa è accaduto in Italia durante il XX secolo per esempio. Il possesso di oro da investimento è stato illegale dal secondo dopoguerra fino a poco più di dieci anni fa. La legge 17 gennaio 2000, n. 7 adegua la legislazione nazionale alle direttive dettate dall’Unione Europea, permettendo ai residenti di comprare e vendere oro grezzo da investimento esente da IVA. Tale legge abolì il monopolio dell’oro da parte dell’Ufficio italiano del cambi, in vigore dal 1945.

L’investimento in oro era quindi illegale negli anni ’70, per esempio, quando sarebbe stato utile come hedge contro la lira, il cui valore come tutti ricordano era soggetto ad un’altissima erosione inflazionistica. Non solo comprare oro era illegale, ma entrarono anche in vigore tutta una serie di misure per ostacolare e impedire gli investimenti all’estero.

Giampaolo Arachi, Franco Bruni e Donato Masciandaro ripercorrono tali misure in un articolo sulla repressione finanziaria in Italia: nel giugno 1972 “venne interrotta la conversione al tasso di cambio ufficiale delle banconote italiane rimesse dalle banche estere. Un anno dopo venne introdotto l’obbligo del deposito in un conto infruttifero di un importo di lire equivalente alla metà delle somme investite all’estero. [...] Dal 1976 le violazioni della normativa valutaria si configurarono come reati e comportarono sanzioni penali.”

Dallo stesso articolo, ecco spiegato il meccanismo della repressione (grassetto nostro):

“Il meccanismo della "repressione" consisteva nel trattenere, con i controlli all'uscita, il risparmio all'interno del Paese represso, "tassandolo" poi con l' inflazione che, anche quando era attesa, non si incorporava nei tassi nominali di interesse dei titoli emessi dai debitori interni (primo fra tutti il settore pubblico) perché non c'era la concorrenza dei titoli esteri. [...] Con la repressione finanziaria in Italia, ad esempio, il rendimento reale del risparmio scese ampiamente sotto lo zero per diversi anni, risultando dai 3 ai 5 punti % più basso che sui mercati internazionali.”

L’annullamento della concorrenza, la negazione delle alternative, è la chiave della repressione finanziaria. Quella attuale allora non è repressione finanziaria, e anche se lo fosse non sarebbe una novità. La novità invece è la possibilità di comprare oro, e di scegliere tra innumerevoli alternative, sia nazionali che estere, che si prospettano a chiunque voglia gestire il proprio denaro invece che prestarlo ad un governo o pagare il manager di un fondo pensione.

Ovviamente nessuno strumento può dare la certezza che sarà in grado di marginare le perdite che si subiscono in altri investimenti. Per esempio, nel gennaio 1975 gli Stati Uniti, che subivano un tasso di interesse reale che era del 4,6% al di sotto dell’inflazione, legalizzarono il possesso di oro fisico dopo trent’anni. Il prezzo dell’oro in dollari si dimezzò in breve tempo, il mercato si sbarazzò nei successivi 18 mesi degli investitori poco convinti, per poi cominciare una corsa che lo portò a moltiplicarsi per 8 entro l’inizio del 1980.

Come raccomanda Bill Gross di Pimco: “A meno che non ci si accontenti di rendimenti che al netto dell’inflazione sono di meno 2/3%, è necessario correre dei rischi in qualche modo.”  Comprare oro è uno di questi rischi, semplice nella sua ovvietà: un rifugio senza giurisdizione in un mercato senza confini. Sia chiaro che investire in oro significa scambiare il rischio di inflazione tipico di cash e bond con il rischio legato al prezzo dell’oro.

La volatilità è un dato di fatto, mentre la ricchezza mondiale si libera dalle restrizioni immaginarie di cui parla la stampa finanziaria, e dalle trappole per ingenui tese dai venditori del risparmio gestito.   

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Adrian E. Ash è Head of Research presso BullionVault, il maggior servizio di investimento in oro al mondo. Adrian ha pecedentemente ricoperto il ruolo di Editorial presso la Fleet Street Publications Ltd e di redattore economico dalla City di Londra per The Daily Reckoning; è un collaboratore regolare della rivista finanziaria per investimenti MoneyWeek. I suoi commenti sul mercato dell'oro sono stati pubblicati su Financial Times, Bloomberg e Der Stern in Germania e molte altre pubblicazioni.

Leggi tutti gli articoli di Adrian E. Ash.

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